Dipendenze e responsabilità
Responsabilità nelle persone con dipendenze patologiche
Sommario: I. Introduzione. II. Chiarimenti concettuali. III. Incoerenza vitale come substrato delle dipendenze. IV. Responsabilità all’inizio dei sintomi. V. Responsabilità nell’agire delle persone dipendenti. VI. Responsabilità nel processo di guarigione. VII. Conclusioni
Riassunto
La responsabilità è una caratteristica umana che comporta l’esistenza in atto della libertà. Dall’etimologia del termine si evince il suo significato più profondo: capacità di rispondere. Le dipendenze, intese come incapacità di sottrarsi all’influsso di una certa sostanza, attività o persona, costituiscono una malattia della libertà e quindi incidono negativamente sulla responsabilità.
Nell’articolo si evidenziano gli ambiti o spazi nei quali è ancora possibile trovare la responsabilità, come risposta e apertura al vero, e far leva su di essa per prevenire o aiutare ad uscire da sofferenze quali la schiavitù della droga o la pornografia su internet. Si identificano quattro mete positive: vivere con coerenza d’accordo ai propri ideali, essere attenti a quanto potrebbe innescare una dipendenza ed inseguire le virtù, cercare aiuto per ridurre le conseguenze negative ed essere attivi nel processo di guarigione.
English Abstract
Responsibility is a human characteristic that needs the existence of freedom now and in act. The etymology of the word shows its deeper meaning: the ability to respond. Addiction, defined as incapacity to escape the influence of a certain drug, activity or person, is a disease of liberty and therefore adversely affects responsibility. In this article, we highlight areas or spaces where you can still find responsibility, as an answer and openness to the truth, that can be relied on, in order to rescue one from suffering experienced in the slavery of drugs or pornography on internet. We identify four main positive goals: living according to one’s ideals, alertness to discover what may trigger an addiction and strive for virtues, seek help to reduce negative consequences of dependence, and be proactive in the healing process.
I. Introduzione sulla responsabilità nelle dipendenze
Risulta complesso parlare di responsabilità nelle dipendenze perché, come altri disturbi psichici, si possono considerare una malattia della libertà e quindi della responsabilità. La responsabilità, infatti, è una caratteristica umana che comporta l’esistenza in atto, nel momento di agire, della libertà.
L’obiettivo di questo lavoro sarà vedere se ci sono ancora spazi di responsabilità, di sovranità dell’Io, di fronte alla schiavitù osservata nelle dipendenze, intese in senso ampio: non soltanto le dipendenze da sostanze, ma anche i comportamenti impulsivi, dai disturbi alimentari alla pornografia, ecc.
Il tema è di grande interesse per vaste aree della teologia quali la morale, la dottrina sociale della Chiesa e la pastorale. Il fenomeno delle dipendenze, come fenomeno ormai abituale in ampi settori della società contemporanea, rappresenta una sfida alla nuova evangelizzazione. Conviene non perdere di vista che «le nuove forme di schiavitù della droga e la disperazione in cui cadono tante persone trovano una spiegazione non solo sociologica e psicologica, ma essenzialmente spirituale»[1]. C’è bisogno quindi di agire sullo spirito per risolvere il problema.
Il primo punto sarà dedicato ai chiarimenti concettuali. Mi riferirò poi a quattro ambiti: la mancanza di responsabilità nell’incoerenza vitale come sostrato, la responsabilità all’inizio della dipendenza, nell’agire della persona dipendente, e nel processo di guarigione. L’argomento si inserisce nella polemica tra quelli che considerano le dipendenze una malattia e quelli che invece vedono in esse soltanto una scelta.
L’interesse non è solo teorico perché la terapia psicologica delle dipendenze fa leva sulla responsabilità cercando di rinvigorire la volontà malata. I medici però sono poco inclini a parlare di responsabilità o imputabilità.
È significativo che il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) faccia un chiarimento esplicito: «I concetti clinici e scientifici implicati nella categorizzazione di queste condizioni come disturbi mentali – si legge – possono essere del tutto irrilevanti in sede giuridica, ove ad esempio si debba tenere conto di aspetti quali la responsabilità individuale, la valutazione della disabilità e l’imputabilità»[2]. Nomina due patologie, per chiarire che i criteri medici non sono sovrapponibili ai principi giuridici o non medici: il gioco d’azzardo patologico e la pedofilia.
È comprensibile che un manuale descrittivo di malattie non voglia approfondire su tali concetti, di fronte al rischio di ripercussioni legali ed economiche, ma il medico o lo psicologo non può fare a meno di queste nozioni. Oggi si esalta la libertà ma allo stesso tempo si sottolineano i condizionamenti di ordine psicologico e sociale, e «alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà stessa della libertà umana»[3]. Spesso i professionisti della salute si interessano soltanto della droga, dell’alcool, del sesso, del gioco o di altri comportamenti quando danneggiano la salute psicofisica, ma non soppesano se si faccia o meno un uso responsabile.
È comunque importante per la dignità di ogni persona assumere le conseguenze delle proprie azioni e riconoscersi come soggetto responsabile. Non un soggetto infallibile, bensì limitato e condizionato da fattori interni ed esterni, ma che resta libero per portar avanti il suo progetto di vita. La moderna psicologia e la neuroscienza hanno fatto importanti passi in avanti, ma rimangono molti misteri riguardo l’agire della persona. Si sa tanto sulla localizzazione nel cervello delle funzioni psicologiche e sui predisponenti genetici. Tuttavia, i dati sono lontani dalla verità completa, come sottolinea Kagan[4].
Non si riesce a identificare, in un solo gruppo di neuroni o circuiti interneuronali, costrutti psicologici come la percezione dei volti, la memoria di alcune parole, il concetto di numero, i giudizi morali o le emozioni. Pure il determinismo genetico si è dimostrato insufficiente: non è stato trovato nessun gene in chiaro rapporto con un componente della personalità, tratto psicopatologico o stato dell’umore. Malgrado si sappia che i bambini maltrattati, poveri o abbandonati possono diventare ansiosi, rabbiosi, depressi o dipendenti, si continua a concentrare la ricerca sui fattori biologici.
Kagan fa notare che in questo modo si trascura la responsabilità della società, che dovrebbe badare ad altri fattori di rischio, e si toglie responsabilità e senso di colpa agli stessi individui, perché così non devono misurarsi e rispondere delle proprie decisioni e azioni.
Non si può affermare che ogni persona dipendente abbia perso la responsabilità, ma nemmeno che tutti siano pienamente responsabili. Si deve analizzare caso per caso. Vedremo la responsabilità individuale, senza dimenticare che esiste una collettiva, della famiglia, della società, dello stato. I due livelli sono uniti: l’individuo deve rispondere alla sua coscienza, ma pure alle persone con le quali vive, al mondo. Uno può essere ingannato dall’apparente comodità di seguire la corrente, di non pensare ai doveri, impegni o legami, ma «chi non ha il coraggio di prendere in mano il timone della propria vita, dovrebbe sapere che la corrente nella quale si abbandona prima o poi lo precipiterà sugli scogli»[5].
II. Chiarimenti concettuali sulle dipendenze
L’etimologia della parola responsabilità ci svella il suo significato più profondo. Viene dal verbo latino respondeo, cioè rispondere o poter dare risposta. Oltre alla libertà, implica una certa idea di legge della quale rispondere, la capacità di rendersi conto di essa e dei propri atti, e di scegliere. La scelta ha come oggetto quello che dipende dalla persona, è «un desiderio deliberato di ciò che dipende da noi»[6], requisito della responsabilità. Dare una risposta comporta l’esistenza di qualcuno che la chieda, che la aspetti o che la meriti. Per scoprire dunque gli ambiti di responsabilità nelle dipendenze, bisogna ammettere che ci sia qualcuno a cui dare risposta del proprio agire. Non si può dire che la responsabilità sia soltanto un valore nella coscienza personale, perché una risposta, nel senso più preciso, esce dalla persona.
In linea con il significato etimologico, la responsabilità si può capire come libertà positiva o per fare qualcosa. È radicata nella libertà come capacità di guidare noi stessi verso una meta, che ci fa capaci di autorealizzazione o di autodistruzione[7]. Richiede la consapevolezza di un progetto e il riconoscimento di una persona che affida un compito. Da qui la possibilità di essere responsabile di fronte a colui che dà una missione. Se la libertà è un’esperienza intima di ogni persona, la responsabilità è più l’apertura all’esterno di questa proprietà. È in stretto rapporto con la capacità umana di autotrascendenza o uscire da sé. Richiede sforzo, lotta, tensione.
Tanto la libertà come la responsabilità fanno riferimento alla nostra volontà e al nostro intelletto. Seguendo Philipp Lersch, possiamo dire che la funzione della volontà è quella di organizzare tutto secondo un progetto, il che suppone la tensione per togliere gli ostacoli che si presentano. Vediamo spuntare la responsabilità in una visione unitaria della persona, come corpo, anima e spirito: «l’uomo diviene, per effetto della volontà, un essere portatore di responsabilità»[8].
Altri concetti correlati sono la volontarietà, l’imputabilità e la colpevolezza. I significati variano in una certa misura a seconda dell’ambito di studio: la filosofia, la teologia, il diritto, la medicina o la psicologia. La volontarietà fa riferimento all’avvertenza e consenso nel volere. È in rapporto all’intelletto che presenta il bene, ma dipende pure dai sentimenti e dalle situazioni esterne.
L’imputabilità si riferisce alla possibilità di attribuire un atto ad un soggetto. La colpevolezza implica la trasgressione di un precetto ed è in relazione con la pena o il castigo dovuto. È frequente, però, che si adoperi il concetto di imputabilità nel senso di colpevolezza o di responsabilità.
Tutti questi termini appartengono all’essenza dell’essere umano e ammettono gradualità. La volontarietà di un atto varia secondo la consapevolezza, da quanto sia governato dalla ragione o invece oscurato dalle passioni, dagli altri elementi dell’affettività o dall’inconscio. Essere imputabile significa aver commesso un fatto, come individuo. Essere colpevole è in rapporto ad una legge naturale o civile, a un codice morale di radici religiose o deontologico. Possiamo trovare atti volontari e imputabili in mancanza di responsabilità, quando sono fatti con una volontà oscurata da fattori interni o esterni.
La persona può essere colpevole, senza essere pienamente responsabile. Essere responsabile implica un atto volontario, imputabile e anche colpevole se si riferisce ad una trasgressione. Siamo responsabili quando siamo padroni del nostro giudizio e delle nostre decisioni libere; si aggiunge all’idea di imputabilità, quella di rendere conto ad un altro. L’imputabilità è un presupposto, la responsabilità una conseguenza.
Essendo la responsabilità una nozione complessa, è ragionevole che le ricerche psicologiche considerino il parere dei filosofi e di altri esperti. È quanto ha fatto un gruppo di ricercatori degli Stati Uniti per sviluppare uno strumento di valutazione delle convinzioni collegate alla libera volontà, il Free Will Inventory (FWI). L’idea di responsabilità in questo studio è vicina al concetto di imputabilità. Le proposte specifiche sulla responsabilità furono sette. Nella prima si legge: essere responsabile delle decisioni e azioni attuali implica essere responsabili di tutte le decisioni previe[9].
Passando alla nozione di dipendenza, la vediamo in rapporto all’essere vincolato a qualcosa o qualcuno in tal modo da avere un forte bisogno. Alcuni sinonimi sono sottomissione, subordinazione e soggezione…, fino alla schiavitù. In medicina si parla di un insieme di fenomeni quali la tolleranza, o bisogno di aumentare progressivamente la sostanza (o comportamento dipendente) per produrre l’effetto iniziale; di dipendenza psicologica, o sentimenti di soddisfazione assieme al desiderio di ripetere l’esperienza ed evitare la tensione di non averla; e di dipendenza fisica, quando avvengono sintomi organici causati dalla mancanza della sostanza. In inglese si parla pure di addiction, per sottolineare un uso compulsivo e irresistibile; e di craving o ansia estrema per ottenere una sostanza o appagare un desiderio fortissimo, benché se ne conoscano gli effetti nocivi.
Ci troviamo quindi nella dimensione morale del agire umano. È in gioco la perfezione o meno della persona, dove interviene un principio interno fondamentale del comportamento: l’abito operativo. L’abito viene definito come una qualità stabile, difficilmente rimovibile, della potenza operativa, che dispone ad agire e sentire in un certo modo. Non cambia sostanzialmente il soggetto, ma lo fa agire in modo diverso ed è sempre buono o cattivo, orientato verso il bene o il male. È presente soltanto nell’uomo, perché dotato di libertà e dominio dei propri atti[10].
Gli abiti agevolano l’azione, danno spontaneità e facilità per agire in una determinata direzione: nel caso degli abiti buoni o virtù, la capacità operativa si sviluppa e cresce, perché portano verso un progetto di vita buono e ci fanno più umani; l’influsso sulla libertà è positivo. Nel caso degli abiti cattivi o vizi, si diventa meno liberi e quindi meno umani. Le virtù perfezionano la potenza e i vizi in certo senso la corrompono. Questa corruzione coinvolge tutta la persona intera e le sue forze, rendendo difficile agire bene. Si pensi al pigro che è incapace di compiere abitualmente i propri doveri, o all’uomo dominato dall’odio, che non sa amare.
Il vizio facilita le opere cattive. Come spiegò Aristotele, il giusto non può compiere, con la medesima prontezza dell’ingiusto, opere inique[11]. San Tommaso dirà che l’uomo vizioso ha una volontà pervertita che non sente il rimprovero dell’intelligenza[12]. Si vede che il vizio «comporta una certa assuefazione, senza che ciò sopprima la libertà o l’intensità dell’atto né, solitamente, diminuisca la responsabilità in causa»; e che «il vizioso diviene schiavo delle proprie passioni, con la strana energia che l’uso della ragione e la passione umana per l’infinito gli conferiscono per saziarle»[13].
Le dipendenze si muovono dentro queste categorie e ne sono una prova empirica di quanto appena detto: l’alcoolizzato, ad esempio, non riesce a sottrarsi dal bere. Quanto più forti e intense siano le esperienze con sostanze o altre azioni incontrollate, più grande sarà la schiavitù. Siamo di fonte ad un vizio? Come influisce un abito operativo stabile nella responsabilità? Spero che la risposta sia più chiara alla fine di queste pagine, nelle quali si predilige il concetto di responsabilità intesa come apertura e capacità di rispondere.
III. Incoerenza vitale come substrato delle dipendenze
La mancanza di coerenza con gli ideali o con il programma esistenziale è una non-risposta a quello che la vita chiede, o una mancanza di responsabilità. La si può vedere come una via privilegiata per arrivare alla dipendenza e ad altre patologie. Il programma esistenziale può essere ricevuto dalla cultura, dall’ambiente, dalla famiglia, ma si sperimenta radicato nel più profondo della persona.
L’incoerenza agisce come forte fattore destabilizzante: le forze dell’Io non possono lottare indefinitamente con la coscienza, senza che ci siano dei danni. In un approccio psicoanalitico, la lotta finisce nella repressione o confinamento nell’inconscio di quei contenuti che disturbano. Il conflitto può essere anche conseguenza o indizio di fattori come la depressione, i disturbi di personalità o qualche sintomo psicotico. Ma l’incoerenza può essere pure una scelta in parte consapevole e voluta.
Per fare qualche esempio: il coniuge abitualmente infedele, il funzionario scontento che commette spesso dei furti o manca ai suoi obblighi, la persona con un particolare impegno vocazionale religioso o di servizio ad altri che in certe circostanze non lo adempie. Non è strano che le persone che scelgono di provare a rendere compatibili degli ideali opposti, vivendo una doppia vita di qualsiasi tipo, finiscano con l’assumere un comportamento più alterato.
Nelle dipendenze, il conflitto di coerenza si può sentire dai primi passi, come un grido di chi esige risposta. Ci sono tre istanze che chiedono questa risposta. L’Io: il soggetto interiore; gli altri che stanno accanto: la famiglia, i genitori, i figli, gli amici, la società intera. E infine, per i credenti c’è pure un ordine superiore, un Assoluto, un Dio. Le incoerenze e la mancanza di autocontrollo comportano sofferenza e un calo dell’autostima che favorisce delle compensazioni o concessioni che finiscono per disturbare l’equilibrio. Si possono cercare forme di distensione improprie, senza controllare gli istinti.
Per il fatto di non essere d’accordo con l’identità personale, queste attività lasciano un’impronta di dolore accanto ad un piacere effimero, e portano verso la schiavitù. È significativo che le persone dipendenti riferiscono che il piacere ottenuto con il ripetersi dell’attività o sostanza che provoca il loro vincolo non è mai come la prima volta: diminuisce l’incanto ma aumenta la soggezione.
Una forma velata di doppia vita si può vedere in coloro che agiscono esternamente con coerenza, ma sono sempre a disagio. Magari criticano quanti vivono scelleratamente, ma in realtà loro non vanno incontro alle incoerenze più palesi soltanto per paura. Non li muove l’amore indirizzato verso l’altro, ma il perfezionismo o l’amore verso loro stessi. L’incoerenza quindi può essere esterna o interna. Può anche essere vista in rapporto all’accidia, che si può definire con Dante come quello scarso e lento amore del vero bene[14] che spinge a vivere in lotta o, almeno, in contrapposizione interiore agli ideali scelti.
Nella nostra società ci sono numerosi elementi che favoriscono una doppia vita. Sembra che il comportamento personale coerente non abbia importanza, e quindi che la coerenza nel bene non sia un valore. A volte è visto come autenticità potersi presentare in diversi modi, con differenti maschere autentiche a seconda della situazione. L’imprenditore giovane e di successo, il fine settimana può dare spazio alle droghe, una persona sposata può avere un altro partner, e così via.
L’itinerario per fuggire dal sostrato dell’incoerenza, in qualsiasi grado essa si presenti, passa attraverso la consapevolezza, il riconoscimento e la volontà di cambiare. La persona ha bisogno della sincerità, che comincia con un esercizio chiave per la salute spirituale e mentale: mettersi di fronte a se stessa per vedere se le scelte e i mezzi adoperati si adeguano in ogni momento all’ideale, al progetto vitale. Questo esame di coscienza dà luce al mondo interiore. Tante volte per diventare pienamente consapevoli, serve l’appoggio dei genitori, del coniuge, di un amico, di un sacerdote, del direttore spirituale o di uno psicologo in certi casi, o del coaching: un’altra persona disposta ad aiutare e oggettivare quello che preoccupa e segnalare le vie per ritornare ad avere una vita coerente.
Oltre all’incoerenza operativa, può darsi un’incoerenza esistenziale, quando non si arriva a scoprire il progetto, il senso unico e irrepetibile della propria esistenza, e quindi non si sente nemmeno il bisogno di agire, di dare una risposta. Queste persone si trovano immerse in un vuoto esistenziale e hanno più probabilità di cadere nelle dipendenze.
Dagli studi con il test di Rotter[15], si sa che le persone internaliste, cioè che pensano che i fatti e quanto accade dipende da loro più che da circostanze esterne irrimediabili, sono meno proclivi ai disturbi psichici. Sono anche più responsabili, nel senso che si considerano in grado di dare delle risposte e che ne valga la pena perché possono influire nel mondo. Gli esternalisti, invece, considerano che quasi niente dipende da loro e hanno più disturbi. Chi considera che tutto avviene senza che lui possa intervenire non sente la sua responsabilità: non sarà in grado di trasformare il mondo né se stesso. Così pensano molte persone dipendenti, che non cercano di cambiare il mondo, e si accontentano di paradisi artificiali, che vedremo.
Alla base del vuoto esistenziale c’è speso un’altra incoerenza interna, come uno squilibrio del cuore: non accettare i limiti dell’umanità e credersi pienamente autonomi. La persona che non si considera limitata e finita non attribuisce nessun senso al dolore né alla tensione e non sa aspettare per ottenere quello che desidera. Un soggetto così è facile preda delle dipendenze, del piacere facile. Chi non si riconosce sanamente dipendente da altri, si può lasciar prendere da dipendenze patologiche. Coloro che vorrebbero una libertà assoluta si ritrovano nella schiavitù.
Da qui una diagnosi ancora valida fatta tanti anni fa: «gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo (…). Da una parte infatti, come creatura, sperimenta in mille modi i suoi limiti; dall’altra parte si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato a una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società»[16]. Conclude il testo menzionando l’incapacità di molte persone di riflettere su questi argomenti, perché vivono in un materialismo pratico, o perché non hanno né il tempo né il modo di pensarci perché oppressi dalla miseria. Proprio le persone che dispongono di troppi beni materiali senza riferimenti spirituali e quelle che vivono in situazioni socio-economiche degradanti sono soggette a un rischio più elevato di diventare dipendenti.
La coerenza è vedere la libertà come apertura, sapendo che la libertà assoluta non esiste. Afferma lo psichiatra spagnolo Enrique Rojas: «essere liberi, e non semplicemente sentirsi liberi, implica una responsabilità»[17]. Essere coerenti è usare la libertà con responsabilità e decidere senza paura, seguendo un progetto, correndo il rischio che ogni decisione comporta. Chi non agisce in armonia con la sua logica interna si rompe. L’uomo è chiamato a cercare sempre la verità che «non si impone che in forza della stessa verità»[18]. Un’obbedienza senza la libertà sarebbe contraddittoria, come contraddittoria è la ricerca di un piacere che non libera ma schiavizza. Le persone dipendenti possono non vedere la verità dovuto ad alcune esperienze dell’affettività, possono anche non volere scoprirla per paura delle conseguenze, o pensare che sia impossibile arrivare ad essa.
Scrisse Giovanni Paolo II sulla tossicodipendenza: «Pur riconoscendo la complessità del fenomeno e senza pretendere di fare un’analisi esauriente delle sue cause, a me qui preme sottolineare come alla sua origine vi sia spesso un clima di scetticismo umano e religioso, di edonismo, che alla fine porta alla frustrazione, al vuoto esistenziale, alla convinzione dell’insignificanza della vita stessa, al degrado nella violenza»[19]. Per lui e tanti studiosi, «la forza di presa della droga sull’animo giovanile sta nella disaffezione alla vita, nella caduta degli ideali, nella paura del futuro. Senza la prospettiva di grandi valori, la persona umana, specie se ancora nella sua primavera, quando non ha ragione di vivere e di pensare con suggestione all’avvenire, cerca di fuggire dal presente per rifugiarsi nei surrogati o nel nulla»[20].
Individuare la mancanza di responsabilità come sostrato delle dipendenze potrebbe essere quindi un compito dei clinici e un mezzo di prevenzione. Argomento importante da considerare è il limite della propria esistenza e la morte, quale chiamata definitiva alla responsabilità: nessuno può fuggire ad essa e averla presente aiuta a non ritardare le risposte da dare.
IV. Responsabilità all’inizio dei sintomi di dipendenza
Parlare di responsabilità all’inizio della dipendenza ci immerge di più nella polemica tra considerare questi disturbi una scelta o una malattia. Senza la pretesa di essere esaustivi, vedremo alcuni aspetti di questo dibattito. Sembra chiaro che non sono una malattia qualsiasi, perché le persone affette da dipendenze possono decidere, e tante volte lo fanno, di non ricorrere alla sostanza o attività pericolosa. E quindi smettono di stare male con un atto volontario, cosa che non succede in altre malattie quale il cancro o il colera…. Questa è la tesi, ad esempio, di Heyman[21], che spiega le dipendenze nel fatto che le ricompense immediate acquistano la precedenza sui guadagni a lungo termine.
D’altra parte, come mette in rilievo Lewis, gli studi delle neuroscienze fanno pensare a come le scelte impulsive e incontrollate di pazienti tossicodipendenti derivino da particolari livelli di dopamina in alcune zone del cervello, a causa del forte impatto edonistico che proviene dalla ripetuta esperienza con la droga[22]. Quando si avvicina il momento nel quale la persona può appagare il suo desiderio di una sostanza, del gioco o dell’alcool, ecc., aumentano i livelli di dopamina, fenomeno che sembra essere previo al giudizio razionale. Gli aumenti ripetuti di dopamina modificherebbero la struttura del cervello, nonché la sua funzionalità, aumentando la dipendenza e diminuendo l’influsso di qualsiasi altro tipo di ricompensa e dei processi cognitivi necessari per scegliere.
Penso sia vero, come conclude Lewis, che le dipendenze non sono uno stato monolitico: o malattia o scelta. Si osserva spesso una serie ricorrente di scelte che permettono la negoziazione e, talvolta, la cooperazione tra gli obiettivi immediati e a lungo termine, ma che finisce per alterare la funzione del cervello. I modelli di spiegazione che poggiano sulla scelta, e diremmo noi anche sulla responsabilità, non sono quindi incompatibili con considerare le dipendenze una malattia.
È quanto avrebbe potuto sostenere Aristotele, che affermò: «nemmeno chi è malato può divenire sano, anche se si dà il caso che sia malato volontariamente, vivendo senza controllo e non dando retta ai medici: all’inizio vi era per lui la possibilità di non ammalarsi, ma quando si è lasciato andare ciò non è più possibile, come non è possibile per chi ha lasciato cadere una pietra riprenderla di nuovo eppure dipendeva da lui raccoglierla e scagliarla»[23].
Nelle due posizioni si trovano sicuramente elementi di verità. Nelle persone dipendenti può mancare una visione delle conseguenze dei propri atti e possono cercare le retribuzioni immediate, secondo un modello di ricompensa come quello di Skinner. Le persone dipendenti potrebbero lasciare le cattive abitudini, se pensassero a mete future quale un matrimonio felice, un lavoro auto-realizzante, ecc. Ci sono diversi studi scientifici sull’importanza delle sane abitudini o sani comportamenti, per diminuire l’abuso di sostanze, ecc. Tra i fattori che promuovono le sane abitudini, l’unione matrimoniale sembra importante e ci sono differenze con altre unioni[24].
Quando si cercano però i motivi dei comportamenti dipendenti non è frequente parlare di responsabilità. Si considerano i fattori genetici e il temperamento ereditato, gli influssi dell’ambiente, i meccanismi di disinibizione[25]. Sembra che la propria scelta e capacità di rispondere sia molto limitata. I tratti di carattere però sono a volte più modificabili che altre cause ambientali, e alcuni come l’ottimismo e la coscienziosità, sinonimo di responsabilità, favoriscono la vita matrimoniale, il lavoro e la longevità[26]. La ricerca, specialmente nell’alcoolismo, mostra che tra i fattori negativi, i più importanti sono la personalità anomala e le difficoltà interpersonali e sociali. Si costata allo stesso tempo che fenomeni di apertura come la religiosità e la disponibilità a cambiare possono predire dei migliori risultati[27].
Ci sono quindi elementi interni ed esterni che precedono l’inizio della dipendenza. Ma normalmente resta lo spazio per scegliere, per orientare la propria condotta e il proprio carattere. La mancanza di sforzo per superare alcune caratteristiche di personalità potrebbe portare ad una sintomatologia clinica.
La responsabilità può essere molto ridotta quando la persona non è consapevole, non ha riflettuto sui rischi del suo comportamento o non ha saputo combattere, o non ha avuto buoni consiglieri. Può aver ricevuto dei consigli sbagliati o contro-esempi, ma può anche aver scelto la strada sbagliata o aver rifiutato il rimedio nelle prime manifestazioni. È chiaro quanto sia importante la formazione della personalità, dove hanno un ruolo chiave le virtù e gli ideali.
Non si può vivere la libertà irresponsabilmente, senza alcun limite, benché ci siano momenti in cui tutto sembra possibile. Prima o poi si scoprono dei confini. Uno dei personaggi del romanzo di Alekandr Solgenitsyn, Una giornata di Ivan Denissovic, prigioniero in un lager dell’Unione Sovietica, ricorda con nostalgia un suo viaggio nel treno Vladivostok-Mosca. Era pieno di militari e di alcune studentesse, apparentemente felici, con le quali scherzava e parlava volentieri.
Adesso, costretto a lavorare a 30 gradi sotto zero, commenta con una certa amarezza: «viaggiavano ai margini della vita, per loro tutti i semafori erano verdi…»[28]. Di là dalle circostanze estreme, ogni giorno ci conferma che non tutti i semafori sono verdi. Non è dunque strano che una persona non disposta a rispettare delle norme, in un certo senso scritte nella sua natura, vada incontro a patologie.
Uno studio recente identifica quattro caratteristiche strutturali dell’inizio di una dipendenza: il passaggio da un uso occasionale delle sostanze alla dipendenza, la vulnerabilità individuale, ciò che perpetua il problema, e come prendono il sopravvento sul proprio comportamento, nonostante le gravi conseguenze negative[29]. Gli autori sostengono che il processo segue gli stessi principi della motivazione in genere, che si mettono in moto di fronte a qualche obiettivo da raggiungere.
Il primo principio è che, di solito, le mete o gli obiettivi hanno un significato unico. Il secondo è che una meta importante può implicare l’inibizione di altre mete per favorire la prima (questo viene chiamato shielding principle). Può verificarsi un terzo fenomeno: il trasferimento affettivo della meta, o trasformare i mezzi nella meta stessa. Questo ultimo meccanismo sarebbe fondamentale nell’inizio della dipendenza. Le sostanze o i comportamenti dipendenti acquistano un carattere strumentale per conseguire obiettivi. Poi, da mezzi si trasformano in una meta a sé, e questa rappresentazione si rafforza nel tempo. Sarebbe simile a quello che succede con chi comincia a correre per dimagrire, ma continua a farlo dopo aver raggiunto il peso ideale, perché correre è diventato desiderabile in sé.
Poiché lo strumento in questo caso è unico (la sostanza o altro comportamento dipendente volto a socializzare, aumentare l’autostima, lo stato dell’umore o il rendimento, ecc.), è più facile il trasferimento emotivo. Se si hanno più interessi al di fuori di sé, come gli amici, una famiglia, l’amore e l’intimità, si riduce il rischio. La dipendenza provoca una polarizzazione dell’attenzione, che agisce come impulso a perpetuarla. Le risorse di autoregolazione si impegnano soltanto in essa, trasformata in meta, e restano meno forze per respingere la tentazione.
In molti casi il percorso della dipendenza si assomiglia all’acquisizione di un vizio. Si sa che le attività o esperienze che provocano piacere fisico o psichico attirano l’essere umano, e sono in grado di diminuire la volontarietà. Le sostanze o altre attività che offrono piacere facile rinforzano il desiderio e tolgono potere al giudizio intellettuale. I condizionamenti possono essere legati all’esperienza di piacere o premio, con diminuzione dell’ansia. Quando sparisce l’effetto gradevole, come dopo l’anestesia, il dolore però aumenta, e aumentano quindi le dosi… Si perde il controllo degli impulsi.
Analoghi fatti possono apparire in attività ben diverse, come in una sessualità smisurata e nel gioco d’azzardo in eccesso o ludopatia[30]. Queste persone benché non abbiano gli effetti chimici della droga sul cervello, sperimentano un’analoga sofferenza. Si parla del craving sessuale come più somigliante a quello delle droghe, perché gli atti legati alla sessualità sono molto rinforzanti e, all’apice dell’esperienza, vengono liberate sostanze chimiche simili a livello del cervello.
L’effetto piacevole o a volte anestetico fomenta il consumo a ripetizione e diventa difficile smettere malgrado si sappia che provoca un danno. Chi consapevolmente inizi un uso di sostanze con capacità di portare alla dipendenza è quindi responsabile. Lo sono anche i politici o i medici che non parlano dei rischi ormai noti del cosiddetto uso ricreativo di sostanze, che può favorire una maggiore dipendenza[31].
Le persone dipendenti spesso, ma non sempre, ricorrono alla sostanza dannosa o attività incontrollata, come qualcosa di estraneo che sopprima l’angoscia vitale e riempia il vuoto dovuto alla mancanza di senso dell’esistenza. In questa prospettiva, Frankl e altri psicologi hanno parlato dei paradisi artificiali che cercano i tossicodipendenti, come conseguenza del vuoto esistenziale[32].
Invece di mettere le loro energie nella trasformazione del mondo reale, l’aiuto degli altri, la crescita delle proprie capacità, le sprecano in paradisi poco duraturi, che danneggiano gravemente la loro salute e la società. L’escalation osservata nelle dipendenze pericolose si può vedere in relazione alla crisi di valori della società e della cultura, unite all’attivismo, alla competitività esagerata e la superficialità nei rapporti interpersonali[33]. Di tutto questo una persona può essere responsabile.
Una dipendenza particolare, nella quale forse si vede di più la responsabilità all’inizio, è quella da internet. È un esempio paradigmatico di non volere dare risposta, prima, e non poter farlo, dopo. Si presenta ad alcune persone come un mezzo per esprimere senza rischio apparente le proprie idee, per offrire ad altri le proprie emozioni e saggiare nuove esperienze. Diventa, come costatano gli psichiatri, «uno specchio fedele della realtà e della psicologia dei suoi utenti, ma ha delle peculiarità connesse alla peculiarità del mezzo»[34].
Costituisce un «”luogo” che viene percepito come estremamente vicino e intimo nella misura in cui la sensazione di distanza svanisce e tutto, compresi i rapporti interpersonali, sembra avvenire “subito al di sotto” dello schermo in uno spazio controllato e controllabile dalla punta delle dita»[35]. Può favorire l’appagamento di tendenze che, nella vita reale, non sarebbero accettate dalla persona stessa o dalla società. In particolare le spinte della sessualità trovano facile sfogo dietro la protezione dello schermo. La dipendenza dalla pornografia è aumentata molto con l’uso di internet, a causa della facilità di accesso, del basso costo o accessibilità, e dell’anonimato[36]; e ci sono strumenti psicologici per valutare la magnitudine del problema[37].
Nella dipendenza da internet, Internet addiction disorder (IAD), le persone trascorrono intere giornate di fronte al computer, diminuiscono l’attività fisica, trascurano la famiglia, gli amici, il lavoro e altri obblighi. Come cause di fondo si trovano la diminuzione della responsabilità personale[38].
L’utilizzo senza moderazione di questo strumento, come anche dei videogiochi e simili, può favorire quindi un disturbo e sarebbe da augurarsi una maggiore responsabilità di tutti: dai fornitori di servizi, dalle software house di videogames, dai genitori, ecc., come è anche auspicabile una regolamentazione migliore. Tante attività innocue nella rete che formano parte della nostra vita, come inviare messaggi, leggere notizie, comprare, ecc., possono essere vissute bene o male.
Ben prima di qualsiasi rete di computer, Philipp Lersch scrisse: «l’abbandono passivo ad immagini spontanee, anche le fantasticherie suggerite da intensi desideri e destinate a realizzare in un mondo illusorio gli impulsi e le tendenze non soddisfatte nel mondo reale, costituiscono un difetto dell’atteggiamento interno del volere»[39]. E questo atteggiamento interno del volere si deve educare nell’apertura alla verità, ad altri interessi, cioè con responsabilità.
Come prevenzione delle dipendenze e altre attività impulsive, sarebbe auspicabile fomentare una vita virtuosa, cioè abiti operativi buoni che tendano al proseguimento della felicità vera e non dei paradisi artificiali. In particolare merita di essere menzionata la virtù della temperanza: «L’uomo temperante – scrisse Giovanni Paolo II – è colui che è padrone di se stesso. Colui nel quale le passioni non prendono il sopravvento sulla ragione, sulla volontà, e anche sul “cuore”.
L’uomo che sa dominare se stesso! Se è così, ci rendiamo facilmente conto di quale valore fondamentale e radicale abbia la virtù della temperanza. Essa è addirittura indispensabile, perché l’uomo “sia” pienamente uomo. Basta guardare qualcuno che, trascinato dalle sue passioni, ne diventa “vittima”, rinunciando da se stesso all’uso della ragione (come, ad esempio, un alcolizzato, un drogato) e constatiamo con chiarezza che “essere uomo” significa rispettare la propria dignità, e perciò, fra l’altro, farsi guidare dalla virtù della temperanza»[40].
Acquistare la virtù implica sforzo, tensione, allontanarsi dalle occasioni. Essere responsabile all’inizio della dipendenza significa pure cercare aiuto negli altri e anche, per chi è cristiano, nella grazia di Dio, per ricevere la forza per migliorare. Questa richiesta è unita alla confessione del limite, della propria debolezza, fondamentale per non cadere nell’arroganza o nella presunzione di poter rimanere liberi da qualsiasi vincolo o difetto soltanto con le proprie energie. Riconoscere la vulnerabilità della natura umana fa avvertire con più chiarezza i pericoli delle scelte sbagliate, che possono farci schiavi.
Con le nostre limitazioni, scopriamo pure quello che Lersch chiama una sovrastruttura personale, costituita dalla volontà e dal pensiero, che ci permette di prendere posizione di fronte ai condizionamenti interni, alla sfera endotimica dei sentimenti, impulsi e tendenze inconsce. L’uomo non può abbandonarsi passivamente a questi processi e stati che subisce, bensì, dovrebbe regolarli.
Così, raggiunge il significato più alto, il suo massimo sviluppo. E in questo sforzo trova la sua dignità, la libertà e la responsabilità[41]. La forza di volontà è la capacità di organizzare le resistenze del mondo interno ed esterno verso uno scopo: «laddove non vi è resistenza da superare non vi è neppure volontà»[42]. La forza di tensione della volontà fa guardare i fini più lontani della vita e della professione, ecc. Questo implica tenacia, persistenza, costanza e fermezza, perché mira in avanti. Diversa è la forza di impeto, che incomincia ma si esaurisce e paralizza subito. Potremmo dire che alla persona dipendente manca soprattutto questa forza di tensione.
V. Responsabilità nell’agire delle persone dipendenti
La responsabilità della persona dipendente, quando essa agisce, viene considerata dai giuristi, la valuta la teologia morale, interessa agli esperti in diritto matrimoniale, ecc. Si possono studiare gli atti materiali della persona affetta da dipendenza, quale il bere alcool in eccesso o avere una condotta sessuale disordinata; o gli altri atti, a volte criminali, commessi da una persona sotto l’influenza dell’alcool o delle droghe, o accecata dalla passione.
Di particolare interesse pratico è anche determinare se una persona dipendente sia in grado di assumere delle responsabilità. A volte si deve valutare a posteriori, per capire se un certo contratto sia stato valido o meno. Il Diritto canonico, ad esempio, considera che le tossicodipendenze e l’alcoolismo cronico possono condizionare il consenso matrimoniale. Si ricorre ai periti e si cerca di capire se i coniugi avevano le minime condizioni per valutare adeguatamente la responsabilità per procreare, educare, essere fedeli l’uno all’altro o per capire l’indissolubilità. Occorre verificare se la persona ha agito dominata da altre circostanze nel momento della scelta, fino al punto di renderla involontaria[43].
Si potrebbe quindi menzionare un’ampia casuistica nei diversi scenari delle azioni intraprese dagli individui dipendenti. La domanda di base è molto simile: la dipendenza annulla la responsabilità nel loro agire o nelle loro scelte libere? La risposta ci porta pure ad una dimensione comune. Si tratta di esaminare se la persona vuole liberamente quello che fa, se ha quell’esperienza di autodeterminazione che si manifesta nel poter dire: posso ma non sono costretto[44].
Per Aristotele un atto è involontario quando si realizza per forza o per ignoranza. Quando invece si realizza per paura, come i marinai che buttano il carico in mare per salvare la nave durante la tempesta, rimane il dubbio, perché è stata fatta una scelta, ma è chiaro che non lo farebbero se non per necessità. Per decidere in questi casi, conclude, bisogna badare alle circostanze. Lo stesso accade negli atti delle persone dipendenti e il Filosofo ci offre dei suggerimenti utili nell’Etica Nicomachea.
È diverso, dirà, agire ignorando che agire per ignoranza. Fa l’esempio della persona ubriaca o infuriata, che non agisce per ignoranza ma per ubriachezza o furore, senza però sapere quello che fa, quindi ignorandolo. Questa ignoranza di quello che si deve fare porta al vizio[45]. La sua conclusione è netta: «non dice bene di certo chi afferma che gli atti compiuti a causa dell’impetuosità o del desiderio sono involontari»[46].
I pazienti affetti da dipendenza sembra che diano ragione ad Aristotele, quando si rendono conto di agire in parte volontariamente. La convinzione della presenza di un fattore genetico può contribuire a ridurre il senso di colpa e di fallimento personale, che scatta quando si pensa ad una scelta personale.
In molti casi, le persone non desiderano però che i propri comportamenti siano attribuiti soltanto ai geni, ma vogliono uno spazio di responsabilità. In alcune malattie psichiche, si sa che la situazione soggettiva peggiora quando si insiste con i pazienti sulla genetica o sulla assenza totale di scelta da parte loro. Aumenta il senso di impotenza di fronte soprattutto a sintomi più pericolosi o imprevedibili. Avvertire dunque la propria responsabilità nelle azioni può essere un tormento che occorre precisare; ma attribuire tutto alla genetica potrebbe ostacolare il miglioramento dei pazienti, incoraggiando un fatalismo causale e scuse per rimanere nel non posso fare niente[47].
Un aspetto fondamentale quando si parla di responsabilità nell’agire delle persone dipendenti è capire in che grado le reazioni emotive possono condizionare la stessa dipendenza. Senza dubbio l’ansia, la depressione, l’ossessività influiscono sull’agire libero della persona e mutano la sua responsabilità. Si possono considerare in un certo senso come alcune passioni che, secondo san Tommaso, influenzano interamente l’uomo e precedono la sua volontà.
A motivo della nostra natura limitata, la forza di queste passioni che precedono l’atto, invece di essere integrata positivamente, può portare in alcuni casi ad agire con meno libertà: gli atti allora non saranno forse propriamente atti umani – controllati dalla volontà, dallo spirito –, ma involontari atti dell’uomo[48]. L’influsso delle passioni generalmente, però, non è tanto grande da far sì che gli atti umani diventino involontari. Determinare con certezza in che misura i condizionamenti psichici diminuiscano la responsabilità resta fuori dalle possibilità della ragione umana. Tuttavia, la coscienza dell’individuo può dire molto perché non sempre il sintomo psichico spegne questa voce del cuore o esclude la colpa.
Ci sono numerose circostanze che possono ridurre o annullare la volontà e quindi la responsabilità di un’azione, come l’inavvertenza, la violenza, il timore, le abitudini (e questo interessa di più le dipendenze), gli affetti incontrollati e altri fattori psicologici e sociali[49]. Non tutte agiscono allo steso modo.
San Tommaso distingue l’influsso della violenza da quello della paura. La violenza può provocare atti assolutamente involontari perché si fanno senza il consenso della persona e contro la sua volontà; ma chi agisce per paura, benché mosso nella sua volontà con il fine di evitare il male che si teme, e quindi un fine diverso da quello dell’azione, potrebbe perfino rinforzare la volontà: come i marinai, del citato esempio di Aristotele, che per paura gettano in mare tutto il carico della nave[50].
L’ansia, una reazione emotiva legata alla paura, può ridurre molto, ma probabilmente non annullare, la volontarietà e quindi la responsabilità. I disturbi psichici più gravi, invece, non lasciano spazio alla libertà né alla responsabilità, ma anche in essi ci sono gradi e può rimanere un resto di volontarietà[51].
I processi psicologici e psicopatologici possono influire sul giudizio di moralità di un’azione, ma non rendono mai buona un’azione cattiva e non sempre tolgono o riducono la responsabilità. Una persona dipendente può essere in grado di avvertire il rischio in cui si trova – e in cui si trovano quelli che le stanno accanto –, e cercare la cura per guarire.
Un adulto che abusa sessualmente di un minore, spinto dai suoi impulsi incontrollati, può essere malato ma, se viene confermata la sua colpevolezza, probabilmente dovrà essere confinato in una struttura, oltre a ricevere la terapia di cui magari ha bisogno: sarà quindi giudicato imputabile, colpevole e responsabile. I malati pericolosi, se veramente sono malati, non vanno puniti, ma la società deve prendere misure cautelari e cercare di guarirli.
Dare uno spazio alla responsabilità nell’agire delle persone dipendenti implica la possibilità di considerarli colpevoli, condizione tanto radicata nella natura umana. Il colpevole perde libertà, la libertà di non fare quello che ha fatto in passato, di mutare quello che è successo; ma possiede ancora la capacità di adottare un atteggiamento costruttivo pentendosi e cambiando se stesso. Fino all’ultimo momento della sua vita l’essere umano conserva questa capacità di reagire: con la contrizione finale può dare significato a molte azioni e scelte sbagliate del passato. Il pentimento diventa, dirà Max Scheler, «una forma di auto–guarigione dell’anima, anzi l’unica via per riacquistare le sue forze perdute»[52]. Quando si sbaglia non è sufficiente voler migliorare, occorre pentirsi.
VI. Responsabilità nel processo di guarigione delle dipendenze
Abbiamo detto che i medici e gli psicologi raramente fanno riferimento alla responsabilità quando parlano del momento iniziale delle dipendenze. Nel processo di guarigione, invece, la considerano chiave per il recupero[53]. Per alcuni gruppi di Alcolisti anonimi, ad esempio, l’alcolismo sarebbe una malattia del corpo e dello spirito ma la persona sarebbe responsabile soltanto della terapia e non dell’inizio o sviluppo.
Ci sono evidenze del fatto che per curare le dipendenze sia importante favorire il desiderio di cambiare, la fiducia di poterlo fare e la responsabilità nel compito. Spesso si consiglia un cambiamento nello stile di vita o esercizi psichici da fare per modificare una forma di pensiero o un atteggiamento, e tutti i suggerimenti richiedono l’impegno del paziente, nella misura in cui sia in grado di farlo. La guarigione piena, dunque, può comportare sofferenza, perché significa accettare umilmente qualche deficienza di carattere e modificare notevolmente lo stile di vita.
Fomentare la responsabilità dipende dalla capacità di far leva su quello che Frankl chiama forza di resistenza dello spirito[54]. L’essere umano è un’unità e la persona spirituale è il nocciolo che organizza tutto l’organismo psicofisico. Lo trasforma dall’inizio dell’esistenza in qualcosa di suo e lo fa un organum, un instrumentum. C’è, dirà Frankl in linea con san Tommaso[55], come un’analogia tra quello che succede tra il musicista e il suo strumento. Se lo strumento stona, non ci sarà nessun musicista in grado di suonare qualcosa. Se l’organismo si ammala, lo spirito non riesce ad esprimersi bene.
A differenza del binomio musicista-strumento, il corpo e lo spirito non sono nella stessa dimensione dell’essere. Per questo, lo spirito rimane invisibile e lo spirituale nell’uomo non può ammalarsi ma anzi sarà ciò che permetterà al malato una relazione – forse minima – con l’evolversi della malattia.
La dipendenza, come abbiamo visto, compromette l’organismo psicofisico e può arrivare a disorganizzarlo o distruggerlo. Le proprietà spirituali dell’uomo, il suo intelletto, la sua volontà e quindi la sua libertà e responsabilità possono essere disturbate.
Nella malattia, il corpo può negare i suoi servizi allo spirito, ma molte volte è possibile almeno cambiare l’atteggiamento. Non è compito dei professionisti della salute intervenire direttamente nella dimensione spirituale eppure, a causa dell’unità dell’essere umano, molte volte lo fanno. Quando si tocca questa dimensione, si manifesta pienamente la grandezza del rapporto medico-paziente o psicologo-paziente: ad esempio, nel consolare chi soffre, o aiutandolo ad affrontare le circostanze dolorose della malattia, promuovendo nuovi atteggiamenti. In questo modo la persona diventa più cosciente del suo spirito, della sua responsabilità come fondamento della propria esistenza.
L’intervento nella dimensione spirituale è quindi importante nel processo di guarigione dalle dipendenze. Bisogna aiutarli a decidere con responsabilità, a scoprire che la loro vita, come scrisse Karl Jaspers, è in tensione verso il trascendente e «il compito dello spirito è quello di lasciare che il vero si manifesti e trovi un linguaggio»[56].
Per raggiungere la meta c’è bisogno di energia e di una tensione indirizzata verso fuori, che cerchi di dare una risposta. L’uomo matura guardando obiettivi futuri, si trova in un «campo polare di tensione tra l’essere e il dover essere, e pertanto di fronte a significati ed a valori, la cui realizzazione si esige da lui»[57]. Frankl menziona tre categorie di valori. I valori di creazione: quanto l’uomo dà al mondo, opera, crea o produce. I valori di esperienza: quello che riceve come dono, negli incontri personali o in altre esperienze. E i valori di atteggiamento: l’atteggiamento che assume di fronte a situazioni ineludibili e di fronte alla sofferenza[58]. Le persone dipendenti possono non poter lavorare e compiere i valori creativi.
Nemmeno riescono a esprimere con pienezza i valori esperienziali, ammirare la bellezza, amare, godersi un’opera d’arte…, perché sono condizionati dalla ricerca smisurata e compulsiva del piacere. Rimangono invece i valori di atteggiamento: possono variare il proprio modo di affrontare o di agire di fronte alla dipendenza. Il che è una prova di una certa capacità di rispondere, di essere responsabili, e di quanto sia utile stimolarla.
Nel processo di guarigione, oltre ad aiutare le persone ad identificare gli scatenanti delle ricadute, come la solitudine, la rabbia, il nervosismo…, è necessario incoraggiarli a lasciare le amicizie che fornivano loro la droga, ad evitare luoghi e situazioni nelle quali sia più facile scivolare nel vizio: in breve, mettere in pratica le misure che permettano di fuggire dalle occasioni. È importante che siano occupati in altre attività, per pensare di meno al comportamento dannoso, e non rimangano isolati.
L’ambivalenza delle persone dipendenti, che si rendono conto in anticipo degli effetti cattivi delle proprie azioni, della possibilità di perdere il lavoro, la famiglia e perfino la vita, ma cercano comunque sempre di più lo sfogo nella dipendenza, che non piace più come prima, si potrebbe risolvere, se si riuscisse a farli guardar al di fuori, verso una meta che unifichi i loro desideri e il loro mondo interiore diviso. Bisogna incoraggiarli ad apprezzare la bellezza, l’autenticità di una vita libera, felice, con molti interessi e amici off-line ai quali poter dare risposta.
VII. Conclusioni del articolo sulla responsabilità nelle dipendenze
Penso sia confermata la convenienza di affrontare la responsabilità nelle dipendenze da una prospettiva multidisciplinare, con una visione globale della persona[59]. Abbiamo visto che il soggetto dipendente è chiamato a rispondere e come sia costruttivo fomentare questa capacità. Intervenire in ogni ambito di responsabilità potrebbe aiutare a guarire ma anche a prevenire i disturbi.
Un sostrato alle dipendenze è stato identificato nell’incoerenza vitale, intesa come vuoto esistenziale, mancanza di significato della vita o assenza di valori stabili a cui fare riferimento. Se niente ha senso, non resta che la noia e la disperazione. Se tutto è relativo e non ci sono ideali o non si agisce d’accordo con essi, non si può dare una risposta: si vive nell’irresponsabilità, nell’infelicità.
È significativo che le abitudini pericolose si scatenino di solito nei momenti di tristezza, di stanchezza e di sentimenti negativi, e sono meno provabili quando la persona è felice, cerca di divertirsi, gode della lettura di un buon libro, nell’ascoltare musica o nel fare sport e condividendo con altri i suoi interessi. Questi atteggiamenti di apertura richiedono una certa tensione, che si deve imparare a tollerare. L’esistenza umana non si può vedere come ricerca autonoma dell’equilibrio personale.
Una meta importante per queste persone sarà riscoprire il senso dell’esistenza; riuscire a non cercare i paradisi artificiali e riacquistare fiducia nella vita di ogni giorno, nella possibilità di lavorare, di avere degli ideali. Perché la terapia abbia successo, devono trovare forti motivazioni per non continuare la loro attività dannosa. Una vita spirituale forte, l’amore verso Dio e gli altri, la bellezza della natura danno preziose ragioni per svegliare il desiderio di tornare a vivere.
Nell’inizio della dipendenza giocano un ruolo fondamentale le virtù, in particolare la temperanza. Chi non è temperante soffre, viene spinto da forze contrarie e «si affligge, sia quando consegue quel che vuole, sia quando lo desidera»[60]. Per questo è più facile aiutarlo a scoprire gli aspetti negativi. Se si rende conto e accetta che quel comportamento nocivo non è una fonte di vero piacere, ma gli toglie autonomia, è in grado di cominciare a guarire.
Molti consigli pratici sono correlati alla responsabilità, alla capacità di rispondere. Spesso si suggerisce di fare una lista di tutti i benefici che verranno come risultato da lasciare quella sostanza o abitudine pericolosa[61]. Più motivi si riescono a trovare, meglio è. Bisogna fuggire dal relativismo, che fa perdere la nozione di abiti operativi, perché non considera niente oggettivamente buono o cattivo, e allora non si lascia spazio né alla virtù né ai vizi e quindi nemmeno alla responsabilità.
La responsabilità come capacità di dare risposta, di uscire da sé, si perde man mano aumenta la dipendenza, che chiude l’apertura al mondo. Tutto rimane intrappolato negli stretti margini di una sostanza, di un’immagine o di un click. Quando non si ammette la possibilità di essere responsabili si esce ancora di meno dall’Io. Non esiste un’istanza esteriore alla quale rispondere. Si può rispondere soltanto alla propria coscienza, cosa che causa il rimorso. Il rimorso e la chiusura portano alla disperazione e alla continuità nel vizio. La responsabilità come apertura porta al pentimento e al cambio.
Si deve sempre ascoltare la voce della propria coscienza. Ma, se per questo si intendesse non sentire niente altro, non chiedere consiglio, non sperimentare il bisogno di rispondere a qualcuno al di fuori di noi, l’ascolto della propria coscienza potrebbe trasformarsi in una trappola e in mancanza di responsabilità. La persona che soltanto vuole rispondere a se stessa, in realtà non risponde. Resta asfissiata nel rimorso, come coloro che iniziano la via delle dipendenze, dove la sensazione di asfissia chiama ad una maggiore dipendenza ancora, per cercare inutilmente di respirare.
La persona dipendente, più che amare, uscire da sé, appagare la sete dell’altro con sacrificio, segno del vero amore, cerca di appagare la propria sete di senso, la sensazione di vuoto. Paradossalmente, se lascia questo tentativo inutile e offre da bere all’altro, troverà spento il suo desiderio. Potrà scoprire una missione, e non chiedere tanto cosa si aspetta dalla vita, ma cosa aspetta la vita da lui: saper dare appunto una risposta.
Come si è visto, i professionisti della salute sono più inclini ad accettare che la responsabilità sia utile per guarire le dipendenze, ma di meno nella prevenzione. Pensano forse che la responsabilità sia un sorta di aspirina, che si assume solo quando la sintomatologia si è manifestata[62].
Tuttavia, la responsabilità è molto di più dell’aspirina e sarebbe utile fomentarla nei diversi ambiti della vita quotidiana, non soltanto dei malati, ma della popolazione generale. Sicuramente si otterrebbe una riduzione significativa delle dipendenze. Gli studi supportano questa affermazione. È noto infatti, che con piccoli cambiamenti di stile di vita nella popolazione generale, si ottiene una maggiore diminuzione dei disturbi, che concentrando le fatiche soltanto nei gruppi a rischio o nei malati[63].
Restano aperte molte possibilità per lavori futuri. Tra di esse, l’analisi della responsabilità sociale, familiare, dei personaggi pubblici che incoraggiano buone o cattive condotte, dello stato e dei politici, degli industriali che promuovono i casinò, dei piccoli imprenditori padroni di un bar dove si fomenta l’uso indiscriminato di macchine da gioco, ecc. Magari anche lo sviluppo di uno strumento di valutazione, che consideri la responsabilità e permetta di capire la gravità, la prognosi e l’evoluzione delle dipendenze e condotte impulsive incontrollate. Mi auguro infine che ci siano più lavori teorici e sperimentali, che partano da una nozione di responsabilità come risposta e apertura, e si riesca a definire meglio come aiutare di più le persone dipendenti in questa dimensione essenziale.
Scaricare pdf dell’articolo originale
[1] Benedetto XVICaritas in Veritate, 29 giugno 2009, in AAS 101 (2009) 641-709, n. 76.
[2] American Psychiatric Association, DSM-IV TR, 2000, Trad. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (4ª) Masson, Milano 2001: raccomandazione cautelativa, 15; Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition (DSM-5) APA Press, Washington DC 2013, 25.
[3] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 6 agosto 1993, in AAS 85 (1993) 1133-1228, n. 33.
[4] J. Kagan, A Trio of Concerns, in «Perspectives on Psychological Science» 2 (4) 2007, 361-376. Jerome Kagan è professore di psicologia a Harvard.
[5] F. Künkel, Psicoterapia del carácter (Die Arbeit Am Charakter), Marfil S.A., Valencia 1966, 20.
[6] Aristotele, Etica Nicomachea, trad. e note di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, Libro III, 1113a, n. 5, 93.
[7] Cfr. J. Burggraf, voce Libertad in C. Izquierdo (dir.), J. Burggraf, F.M. Arocena, Diccionario de Teología, Eunsa, Pamplona 2006, 567-575.
[8] P. Lersch, La struttura del carattere (Der Aufbau des Charakters), CEDAM, Padova 1950, 210.
[9] Cfr. T. Nadelhoffer et al, The free will inventory: Measuring beliefs about agency and responsibility in «Consciousness and Cognition» 25, 2014, 27–41. Con la proposta citata un 78 % delle persone fu d’accordo, un 11 % fu in disaccordo e un 11 % era indifferente.
[10] Cfr. R. García de Haro, La vita cristiana. Corso di teologia morale fondamentale, Ares, Milano 1995, 442-447.
[11] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Libro V, 1137a, n. 13, 211-213: sulla virtù della giustizia.
[12] Cfr. Tommaso d’aquino, In II Sent, d. 25, q 1, a 4, ad 5.
[13] R. García de Haro, La vita cristiana, 445.
[14] Cfr. Dante Alighieri, La Divina commedia, RadiciBUR, Milano 2007, Purgatorio, Canto XVIII, 337-343.
[15] Cfr. J.B. Rotter, Generalized expectancies for internal versus external control of reinforcement in «Psychological Monographs» 1966, 80, 1-28.
[16] Cfr. Vaticano II, Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, n. 10.
[17] E. Rojas, Una teoria della felicità (Una teoría de la felicidad), Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 257.
[18] Cfr. Vaticano II, Dignitatis Humanae, 7 dicembre 1965, n. 1.
[19] Giovanni Paolo II, Discorso ad un gruppo di ex-tossicodipedenti ricevuti in occasione della giornata mondiale contro la droga, 24 giugno 1991, n. 2, in «Insegnamenti» XIV, 1 (1991) 1783-1785.
[20] Idem, Discorso ai giovani della comunità terapeutica per tossicodipendenti “S. Crispino” di Viterbo, 27 maggio 1984, in «Insegnamenti» VII, 1 (1984) 1538-1541.
[21] Cfr. G.M. Heyman, Addiction: A disorder of choice. Harvard University Press, Cambridge 2009.
[22] Cfr. M.D. Lewis, Dopamine and the Neural ‘‘Now’’: Essay and Review of Addiction: A Disorder of Choice in «Perspectives on Psychological Science» 6, 2011, 150-155.
[23] Aristotele, Etica Nicomachea, Libro III, 1114a, n. 7, 97.
[24] Cfr. C. Reczek, The promotion of unhealthy habits in gay, lesbian, and straight intimate Partnerships in «Social Science & Medicine» 75, 2012, 1114-1121. Nell’articolo si affronta l’argomento della responsabilità personale di uno dei coniugi nella salute dell’altro, ma non si analizzano il problemi antropologici di fondo.
[25] Cfr. J.B. Hirsh, A.D. Galinsky, C. Zhong, Drunk, Powerful, and in the Dark: How General Processes of Disinhibition Produce Both Prosocial and Antisocial Behavior in «Perspectives on Psychological Science» 6, 2011, 415-427.
[26] Cfr. B.W. Roberts et al., The Power of Personality. The Comparative Validity of Personality Traits, Socioeconomic Status, and Cognitive Ability for Predicting Important Life Outcomes in «Perspectives on Psychological Science» 2/4, 2007, 313-345.
[27] Cfr. D.A. Charney, E. Zikos, K.J. Gill, Early recovery from alcohol dependence: Factors that promote or impede abstinence in «Journal of Substance Abuse Treatment» 38, 2010, 42-50.
[28] A. Solgenitsyn, Una giornata di Ivan Denissovic, Garzanti, Milano 1963, 108.
[29] Cfr. C.E. Köpetz et al, Motivation and Self-Regulation in Addiction: A Call for Convergence in «Perspectives on Psychological Science» 8, 2013, 3-24.
[30] Cfr. P.A., Fructuoso, Conductas adictivas, in J. Cabanyes, M.A. Monge (editori), La salud mental y sus cuidados, Eunsa, Pamplona 2010, pp. 387-394; J.R. Varo, Adicción al alcohol y a drogas, in ibidem, 395-405.
[31] A. Higuera-Matas et al., Periadolescent exposure to cannabinoids alters the strial and hippocampal dopaminergic system in the adult rat brain in «European Neuropsychopharmacology» 20 (12) 2010, 895-906.
[32] Per l’argomento della tossicodipendenze in Frankl, si veda: W. Vial, La antropología de Viktor Frankl. El dolor una puerta abierta, Editorial Universitaria, Santiago de Chile 2000.
[33] Cfr. Pontificio Consiglio Della Pastorale Per Gli Operatori Sanitari, Carta degli operatori sanitari, Città del Vaticano 1995 (4ª) (prima edizione: ottobre 1994), nn. 92-103, 74-79.
[34] F. Bollorino, Psichiatria e virtualità, in F. Giberti, R. Rossi, Manuale di psichiatria, Piccin, Padova 2009 (VI edizione aggiornata), 564.
[35] Ibid.
[36] In inglese, AAA: Access, Affordability and Anonymity; cfr. A. Cooper, Sexuality and the Internet: Surfing into the new millennium in «Cyber Psychology and Behavior» 1, 1998, 181–187.
[37] Cfr. A. Kor et al, Psychometric development of the Problematic Pornography Use Scale in «Addictive Behaviors» 39, 2014, 861-868.
[38] Cfr. D.J. Kuss, M.D. Griffiths, J.F. Binder, Internet addiction in students: Prevalence and risk factors in «Computers in Human Behavior» 29, 2013, 959–966.
[39] P. Lersch, La struttura del carattere, 223.
[40] Giovanni Paolo II, Udienza generale, 22-XI-1978, n. 3.
[41] Cfr. P. Lersch, La struttura del carattere, 218-220.
[42] Ibidem, 219.
[43] Cfr. J.M. Ferrary Ojeda, voce Drogadicción, in J. Otaduy, A. Viana, J. Sedano (editori), Diccionario general de Derecho Canónico, Vol. III, Universidad de Navarra, Aranzadi, Pamplona 2012, 492-496. Si fa riferimento al canone 1095.
[44] Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, 126.
[45] Aristotele, Etica Nicomachea, Libro III, 1110b, n. 2, 81.
[46] Ibidem, Libro III, 1111b, n. 3, 83.
[47] Cfr. M.M. Easter, Not all my fault: Genetics, stigma, and personal responsibility for women with eating disorders in «Social Science & Medicine» 75, 2012, 1408-1416. L’impatto nei pazienti del considerare la malattia come genetica è diverso a seconda delle diagnosi.
[48] Cfr. Tommaso d’aquino, Summa Theol., I-II, q. 24, a. 3; q. 77 a. 2; D. Biju-Duval, La profondità del cuore. Tra psichico e spirituale, Effatà, Cantalupa (Torino) 2009, 81-85.
[49] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1735.
[50] Cfr. Tommaso d’aquino, Summa Theol., I-II, q. 6, a. 6.
[51] Cfr. C. Cazzullo, La libertà nell’interpretazione della struttura e della dinamica della personalità. Prospettiva psicobiologica, in F. Russo, J. Villanueva (a cura di), Le dimensioni della libertà nel dibattito scientifico e filosofico, Armando, Roma 1995, 37-48; J. Cervós-Navarro, S. Sampaolo, Libertà umana e neurofisiologia, in ibid., 25-34.
[52] M. Scheler, L’eterno nell’uomo, Fabbri, Milano 1972, 143; si veda il capitolo Pentimento e rinascita, 139-171.
[53] Cfr. T.A. Steenbergh et al, Neuroscience exposure and perceptions of client responsibility among addictions counselors in «Journal of Substance Abuse Treatment» 42, 2012, 421–428.
[54] Cfr. V. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 1972, 123-124.
[55] Cfr. Tommaso d’aquino, De Anima, q. unica, a. 10, ad 13.
[56] K. Jaspers, Verità e verifica. Filosofare per la prassi, Morcelliana, Brescia 1986, 173.
[57] V. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 1972, 99.
[58] Cfr. Ibidem, 83-86.
[59] Cfr. N. Park, C. Peterson, Achieving and Sustaining a Good Life in «Perspectives on Psychological Science» 4/4, 2009, 422-428.
[60] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Libro III, 1119a, n. 14, 121.
[61] Cfr. D. Burns, Feeling good. The New mood therapy, Harper Collins, New York 2009, 119-121.
[62] Cfr. N. Park, C. Peterson, Achieving and Sustaining a Good Life, 422-428.
[63] Cfr. F.A. Huppert, A New Approach to Reducing Disorder and Improving Well-Being in «Perspectives on Psychological Science» 4/1 2009, 108-111; Id., Positive mental health in individuals and populations in F.A. Huppert, B. Keverne & N. Baylis (editori), The science of well-being, Oxford University Press, Oxford 2005, 307–340.