Anima, psiche e corpo
Dio non è contrario agli affetti
Siamo anima, psiche e corpo. È molto importante affermare che Dio non è contrario agli affetti, specialmente oggi, mentre stiamo assistendo a due derive. La prima è lo spiritualismo, che porta consequenzialmente al disincanto e provoca la separazione tra lo spirituale e il materiale con pensanti ricadute etiche, dove la carne in seguito reclama violentemente la sua parte.
Uno spiritualismo, quindi, dai tratti gnostici ove la materia è chiamata a dissolversi tramite la propria autocorruzione morale. La seconda è la pedofilia e gli scandali sessuali in generale, dove il narcisismo di pochi infanga il mondo di molti nel rubare l’innocenza. Ma Dio medesimo ha creato gli affetti, e questi sono cosa molto buona.
Gli affetti sono la grammatica dell’amore di Dio, sono il luogo dove l’amore di Dio si traduce nella vita. Dio nel suo essere Trinità è presente nell’amore degli sposi così come è presente nell’amore di chi non si sposa per amore suo. Tutti noi, infatti, viviamo per «qualcuno», non per qualcosa, o, tantomeno, per un’istituzione.
Una delle radici della confusione attuale riguardante tali temi, possiamo trovarla nella schiavitù del desiderio. Un desiderio, di per sé, è qualcosa di buono, specialmente se buono è il suo oggetto. Ma ogni desiderio, pur se buono, diviene una trappola se si trasforma in necessità.
Il desiderio che diventa necessità
Se il desiderio di qualcosa diviene necessità, assolutizzo il desiderio, nonché l’oggetto del desiderio. Il non raggiungerlo, il non possederlo, il non consumarlo, provoca una frustrazione che sarà tanto più forte quanto maggiore era stata l’assolutizzazione e l’investimento di energie emotive, materiali e spirituali. Questo, specialmente negli adolescenti, attinge anche al mondo dell’immaginario.
Quest’ultimo propone oggetti nati dalla fantasia che divengono necessità; il pericolo è quello di progredire verso una deriva psicotica, come di fatto spesso avviene. Oppure, più semplicemente, si complicano i normali dialoghi familiari. Il caso più banale e frequente si ha quando il ragazzo vuole, per esempio, giocare alla playstation o la ragazza non si stacca dai social; se non si può perché c’è da studiare o per altre ragioni, è accesa la miccia e d’immediato scoppia la tragedia.
L’identità: diversità e reciprocità
Si rende necessario ristabilire una solida scala valoriale. Grazie all’amore di Dio può sprigionarsi l’amore tra gli uomini. L’uomo e la donna esistono perché Dio li ama e il suo progetto per loro è un progetto d’amore, sin dai primi momenti. Dopo il peccato è, e continua ad essere, un progetto d’amore. Dio stesso, dopo il peccato originale, nella sua misericordia, spiega all’uomo e alla donna i pericoli insiti nel come sono chiamati ad amarsi. «Verso di lui sarà il tuo istinto», dice a Eva, «e lui ti dominerà». Indica a entrambi la loro vulnerabilità, mostrandosi Padre amante e benedicendo l’amore umano anche nella nuova situazione di peccato, nella situazione di natura «lapsa», cioè corrotta, debilitata, che, promette sin da subito, sarà redenta.
Eva si sentirà in sé mancante di qualcosa e anelerà unirsi ad Adamo, all’uomo; Adamo, a sua volta, sarà tentato di possedere Eva, la donna, quindi di usarla. Ciò che entra oggettivamente in pericolo è l’identità. Adamo può definirsi uomo solo quando vede Eva, donna, carne della sua carne; Eva può definirsi donna solo quando vede Adamo, uomo, carne della sua carne: entrambi persone. Ma se poi l’uno usa dell’altra e viceversa per un fine autoreferenziale, l’identità si offusca e per chiarirsi chiederà nuove compensazioni.
Adamo ed Eva e il destino
Questa è la storia e il destino di ogni uomo e di ogni donna. L’autentica storia di ciascuno di noi comincia nella pancia della mamma dove tutto è liquido. Dopo nove mesi il bambino nasce e tutto è pelle e la pelle stessa diviene comunicazione. Così come sono comunicazione le mani della mamma e le mani del papà, fisiologicamente differenti, comunicanti messaggi differenti.
Il bambino ha bisogno di sentire questa differenza linguistica, dualità «a pelle»; è la prima, fondamentale differenziazione che permetterà, nella crescita, il confronto, l’autoidentificazione, la possibilità di scommettere su un’alterità. Col passare del tempo il bambino si accorge che può uscire da sé e rientrare in sé. Nasce, un poco alla volta, l’identità. Io sono e non sono te, appartengo a me, anche se ho bisogno di te.
Identità sessuale nell’anima, psiche e corpo
Con il passare del tempo nasce anche l’identità sessuale. Questa è la scoperta della datità. Cioè e ancora, l’ascolto di quel che la realtà mi comunica di sé permettendomi di conoscerla. È una realtà che si manifesta nella verità; è una sorta di epifania, da non temere e da guardare con stupore. Infine, si ha l’identità della persona in quanto tale: Io sono, io sono capace di pensare e il mio pensiero è autonomo, alla ricerca della verità e della bellezza. Comincia, o, meglio, prosegue il cammino della conoscenza. Conoscere e lasciarsi conoscere, nella sicurezza minata da diversi fattori.
Oggi c’è Internet con la facilità, vissuta spesso come un obbligo, di collegarsi e restare collegati al mondo virtuale h 24, 7 giorni su 7, come in un eterno e autoriproducente supermercato, di giorno e di notte. Le immagini di tale mondo sono immagini che offrono un’interpretazione soggettiva della realtà, ma muovono i sentimenti; e i sentimenti sono più che veri. Sono processi quasi impercettibili, ma assai profondi, capaci di interferire e veicolare i legami affettivi primari.
Crescendo, il ragazzo, la ragazza, cercano e quasi misurano la distanza fisica e psichica dai rispettivi genitori. Si viene a creare il gioco dell’elastico. Il figlio si allontana, e poi sente il bisogno di tornare, di nuovo si allontana e di nuovo torna. Così, lentamente, si crea il sano distanziamento che porterà alla giusta libertà e indipendenza. Anche in questo ambito, l’assolutizzazione del relativo soffoca la libertà e perfino l’identità.
Perché l’identità di un bambino e di un adolescente è data «anche» da quel che mamma e papà gli dicono, allusioni incluse. Questo vale per il bambino, per il giovane, per il giovane adulto e per l’adulto. Più forte è l’identità, minore è il pericolo che quel che gli altri dicono o pensano possa ledere quel che Io sono.
L’Io verso un Tu
Se il tutto (malgrado tutto) funziona, si crea un circolo virtuoso positivo. L’Io si dirige fisiologicamente verso un Tu, il quale, restituendogli l’identità, lo proietta al mondo. L’Io si realizza, quindi, grazie a un Tu.
Ma se tutto questo non funziona, e, per tornare all’analogia precedente, l’elastico diviene una corda rigida, l’Io del bambino si guarda allo specchio per ricadere su di sé, sfociando in atteggiamenti patologici: narcisismo, insicurezza, fuga in un mondo magico, assolutizzazione del mondo virtuale, droghe virtuali e droghe, sin da giovanissimi, reali.
Il narcisista è chiuso nel suo inganno e vede solo sé stesso; il mondo ha valore solo se relativo a sé, gli altri sono nella misura in cui sono per me.
L’insicurezza raggiunge tali livelli da compromettere la lettura del reale; il mondo è nemico e fonte di sospetto, io non mi comunico né alle cose né agli altri, per salvaguardare il mio solipsismo. I social mi prendono del tutto per cui vale solo quel che è social e l’Io è tiranneggiato da «like» e «bacini».
Il mondo non mi parla più e allora cerco di dialogare con un altro sentire che mi sarà fornito da qualsiasi genere di dipendenza e/o atteggiamento compulsivo.
Il cristianesimo ha sempre posto un’enorme attenzione per la maturità umana in ogni sua declinazione. Sin dai Padri della Chiesa che seppero indagare l’essere umano in tutta la sua grandezza e profondità. Basti pensare a san Massimo il Confessore (588-662) e alla sua definizione di volontà come «orientamento generale della natura razionale comune verso il bene, orientamento in linea con questa natura; è un’armonia con Colui che le darà il suo essere completo (cioè Dio, nda). In quanto naturale non è contraria a Dio.
Se usata e mossa nativamente, è in accordo con Dio. La deificazione», prosegue Massimo, «è il fine supremo cui la volontà umana tende, piena soddisfazione del desiderio profondo dell’uomo, mediante il ritorno al suo principio». E l’amore di Dio si manifesta in Cristo nei riguardi di tutto l’uomo: anima, psiche, corpo.
Dalla necessità del desiderio al dono di sé
Gli imprevisti, più o meno drammatici, fanno parte della nostra vita, e, più che renderci sospettosi, ci rendono attenti all’essenziale. Talora, pare che addirittura il nulla bussi non solo alle porte delle nostre case, ma anche e specialmente alle porte del nostro cuore. Come un fantasma; il fantasma delle nostre paure che, prive di appoggi sotterranei, tornano a galla.
Io temo il giudizio altrui perché temo di essere definito da quel che gli altri possono o potranno dire, pensare di me: temo, in definitiva, di diventare una cosa, un oggetto in mano all’altrui cogitare. Questa è una paura che resta e ci accompagna. Ecco, dunque, la necessità di non trasferirla ai ragazzi e alle ragazze, ai figli e alle figlie.
A parte la situazione storica che ci tocca vivere, nei giovani e nei giovani adulti si nota un’instabilità che li priva di se stessi. È una mancanza di identità che nasce dalla mancanza di un disegno, e, ancora di più, dalla mancanza di appartenere a un disegno che superi i confini dell’Io.
Ci sono ragazzi e ragazze, per esempio, che finché sono sotto pressione per la scuola stanno bene; ma appena questa pressione viene meno, si ammalano. Tutto ciò che produce una tensione positiva verso l’esterno è benvenuto perché è ciò che conduce poi alla possibilità di trascendersi, autotrascendersi, per andare dall’Io al Tu e così trovare la piena realizzazione dell’Io.
In questo processo l’adulto può tanto, molto dipende dal mondo degli adulti e da che cosa questi possono dare. Gli adulti possono far sorgere domande fondanti nei giovani.
Quanto vali?
Sai quanto vali? Cioè sai cosa vuol dire che tu sei venuto al mondo? Sai che se non ci fossi tu il mondo sarebbe un mondo diverso, peggiore? Pur se non esplicitate, queste domande affermative devono essere percepite «a pelle» dai figli. Va percepita l’idea di non essere un caso, ma di appartenere a un disegno cui liberamente partecipiamo.
Partendo da qui si può ampliare il discorso alla sfera soprannaturale. Quanto vali? Tu vali la vita di Dio. Ma, noi per primi, sappiamo che i nostri giovani valgono la vita di Dio? Sappiamo, noi stessi, Io in quanto io, di valere la vita di Dio? Solo così possiamo comprendere come in ognuno, a prescindere dal quoziente intellettivo, dai voti scolastici, dai rifiuti e dalle disobbedienze, si nasconda un tesoro immenso che deve trovare il modo di esprimersi in tutta la completezza dell’essere, anima, psiche, corpo.
Si apre un mondo, perché anche nella sua materialità ogni persona cerca Dio, il deificarsi per grazia che non è il deificarsi per orgoglio che porta al rifiuto di Dio. Per questo c’è bisogno della singolarità di ciascuno, nella diversità e nella reciprocità.
Se un’orchestra fosse composta da tanti strumenti identici, darebbe buona musica, ma molto più povera di quella suonata dall’orchestra composta da tanti strumenti differenti. E noi siamo tentati di essere un dio contro Dio, che è poi il grande inganno diabolico in cui sono caduti Adamo ed Eva; in realtà tutti noi siamo chiamati a deificarci in Dio per grazia, da Dio medesimo, ma per grazia, non per i nostri muscoli spirituali.
È la materialità che dona la differenziazione dello strumento e la qualità differente del suono, creata e benedetta da Dio. E nella materialità gioca un ruolo importante la sessualità che è chiamata ad armonizzare in sé la genitalità a favore dell’affettività. La pienezza dell’affettività sarà raggiunta solo in Cielo; per ora possiamo goderne i riflessi. Qui, le virtù umane e soprannaturali risplendono in tutta la loro luminosità perché divengono la via, ampia, che conduce proprio in Cielo. Ed ecco quindi l’importanza della volontà, intesa come la intendeva san Massimo, mossa dall’intelligenza.
Non è questione di una decisione momentanea, o che nasce dall’entusiasmo. È questione di tutta la vita perché tutta la vita diventa dono. Ma ancora una volta non possiamo perdere di vista che stiamo parlando della natura umana lapsa et redempta, cioè decaduta, corrotta, e però redenta.
Questo ci fa capire come l’amore di Dio vada più in là dell’immaginabile, e come ci ponga dinanzi a grosse responsabilità, nei confronti di noi stessi e nei confronti degli altri. A Papa Francesco piace parlare frequentemente di tre elementi come di tre stazioni: testa, cuore, mani. Con questo sintetizza un concetto molto importante, spesso dimenticato: la dottrina rivelata va affrontata e approfondita con la testa (la ragione, l’intelligenza), deve passare attraverso il cuore (l’amore, la volontà), e tradursi in fatti (le mani).
Come la formazione dottrinale-religiosa, o teologica, così anche la crescita nell’affettività (che, ricordo, è chiamata ad assumere in sé la sessualità e la genitalità e amalgama anima, psiche e corpo), dura tutta la vita. In questo, e per questo, gli atti virtuosi non ci bloccano, ma confermano e ci fanno crescere; basti pensare a un atto di disponibilità, di pazienza, di affetto. Per inciso, la virtù della santa purezza occupa poco spazio in tutto questo; è una virtù importante, ma la partita non si gioca lì: il diavolo vuole farcela giocare lì, per portare e fissare la nostra attenzione dall’ombelico in giù. La partita si gioca a livello del cuore. Non per niente Gesù ci ha detto che è dal cuore dell’uomo che nascono…
In tutto questo bisogna essere consapevoli della responsabilità che ciascuno ha nei confronti degli altri. Occorre una profonda e capillare opera culturale che deve necessariamente partire dall’umano per raggiungere il divino, che poi si intrecciano. Non servono organizzazioni. Serve mettere il cuore per terra, ascoltare, non giudicare, ascoltare la sofferenza altrui, dare speranza, essere pecora e pastore, senza paura di sporcarsi le mani.
Il cristiano può chiedere al Signore di donargli un cuore a misura del Suo; allora le pecore del gregge potranno raccontare al pastore le più grandi nefandezze, e il pastore non si sporcherà (e se uno si sporca poi si lava…). Occorre, per l’appunto, fare cultura, con ogni strumento; non una cultura melensa, ma una cultura degna di questo nome.
Mascolinità e femminilità nel disegno divino
Nel linguaggio figurato della Bibbia, Dio crea prima l’uomo. Poi dice, comunica a Sé stesso, nel dialogo trinitario, che non è bene che l’uomo sia solo. Ma in Lui la persona umana è sempre stata maschio o femmina, per poter passare dall’io al noi; da sempre e per sempre. L’identità è data dall’alterità.
Ripercorrendo il sentiero: Adamo si riconosce uomo, maschio, quando vede Eva, donna, femmina. Il tutto nella dimensione dello stupore e del dono, che è poi la bellezza dell’arte. L’artista compie un’opera d’arte, la cui nascita si ha quando è partecipata, cioè donata. Nello stesso modo mascolinità e femminilità nascono e si confermano quando divengono dono nella reciprocità.
Stupore e dono; così nell’ordine primigenio, e non si vergognavano perché non c’era bisogno della vergogna, non ve n’era causa e non ve n’era conseguenza. Poi, però, nell’ordine creato irrompe l’orgoglio. L’Io umano desidera scalzare l’Io divino e così dall’armonia si passa alla disarmonia. L’Io umano vuole essere il Creatore, non la creatura. In tale sforzo titanico (perché di sforzo titanico si tratta; titanico quanto impossibile: la creatura che opta per essere il Creatore, senza possibilità d’esserlo, proprio per natura), l’uomo così perde la felicità perché perde l’identità. E così odia gli altri perché gli altri sono ostacoli alla propria sete esplicita o nascosta di dominio. Odia Dio perché lo reputa un usurpatore dei suoi propri diritti. In realtà non odia Dio, ma odia un fantoccio di Dio da lui stesso costruito. I bestemmiatori abituali non bestemmiano Dio, ma la scomposta immagine che di lui hanno forgiato nella loro mente stranita. Così chi cerca di eliminare Dio dalla sua vita di fatto elimina un mostro da lui medesimo inventato: «Se conoscessi il dono di Dio», confida Gesù alla samaritana.
Dio, come abbiamo detto, mette con amore immediatamente in guardia l’uomo e la donna: verso di lui sarà il tuo istinto (c’è una manchevolezza nella donna), e lui ti dominerà. La genitalità, che era dono, diviene necessità. Così si rovina la genitalità medesima e il suo valore, perché la necessità esula dalla dinamica del dono e si ricade nel desiderio che diviene necessità.
La primitiva bellezza non sparisce, si oscura. Ogni opera d’arte è malinconia di quella bellezza. Ogni uomo e ogni donna sono malinconia di quella bellezza. Ogni uomo e ogni donna sono opera d’arte in fieri. Per questo gli ultimi sommi pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, possono con rigore ontologico sostenere i giovani, spronarli a fare della loro vita un capolavoro.
Gesù si è fatto carne per ordinare questa bellezza e detta amorevolmente la via per come raggiungerla. L’anticristo, il maligno, si muove in direzione opposta. Distruggere mascolinità e femminilità, scientificamente, con un’organizzazione capillare, che mira alle strutture economiche per poi dettare l’azione al mondo della cultura.
Ma mascolinità e femminilità corrispondono a un ordine primigenio, non sono un caso derivante dal caos. Rispondono a un armonico disegno divino, e ogni cellula del nostro corpo, dai capelli all’alluce, ha inscritto in sé maschio o femmina.
L’identità, dicevamo, è data dall’alterità. Per questo, nello sviluppo di figli e figlie siamo chiamati a essere molto delicati nell’ambito dell’identità sessuale e trasmettere loro che si tratta di un oggetto prezioso. Anche da qui deriva l’importanza del pudore, che non è un’ossessione, ma un arricchimento.
Non si tratta di proibire o di spaventare, ma di proteggere la ricchezza e la bellezza del proprio corpo, e in particolare della genitalità, perché luogo di vita, luogo di un dono prezioso. Per un bambino, per una bambina, per esempio, vedere la nudità dei propri genitori può provocare un’emozione tanto forte da essere difficilmente gestibile; tale emozione richiederà una compensazione e relative complicazioni. È naturalmente bello, d’altra parte, che entrambi i genitori siano capaci di parlare con semplicità e profondità ai propri figli, al momento opportuno e con le parole opportune, di genitalità e sessualità, spiegando loro come vadano integrate dall’affettività. Facendo questo, il mio consiglio è sempre quello di lasciare un po’ di mistero che stimoli il desiderio del dono, e faccia vivere la medesima attesa come un dono. Perché anche l’attesa è un dono che gli amanti sono chiamati a concedersi, dono che diviene pegno di fedeltà.
«In particolare tuttavia», diceva in un’occasione il card. Wojtyla, «penso qui alla castità prematrimoniale come banco di prova proprio per il matrimonio. Il matrimonio, che per il cristiano è sacramento, che accompagna due persone, con l’influsso speciale dell’azione del mistero della Creazione e della Redenzione, esige che solo nel suo ambito un uomo e una donna (di solito due giovani persone) affrontino la vita comune matrimoniale. Affrontare questa vita comune prima del matrimonio, cioè in modo che è contrario all’essenza della castità prematrimoniale, è contrario contemporaneamente alla logica della ragione e della teologia sulla maturazione dell’uomo».
E proseguiva, poco oltre: «L’uomo maturo è quello che può guidare sé stesso, e in un certo senso essere educatore di sé stesso. Chiaramente la maturità non significa essere in un qualche modo indipendenti, avere la voglia, a volte irrefrenabile, di decidere di sé senza riguardo alla gerarchia oggettiva dei valori, senza riguardo alle ragioni reali e al contenuto del comportamento umano. Questo tipo di indipendenza dei ragazzi in periodo di crescita fisica è sempre stato un problema, oggi è diventato uno dei problemi più importanti. Le persone “indipendenti” e non mature sono una minaccia importante per la cultura e per la moralità della società, e prima di tutto un pericolo per sé stesse. Indubbiamente uno dei sintomi di questo pericolo è il modo di trattare la questione della castità prematrimoniale».
In un secondo momento, riprendendo il nostro discorso, la madre affronterà certi temi con la figlia e il padre col figlio.
Mascolinità e femminilità avrebbero poco senso di per sé stesse. Assurgono al loro senso compiuto nella dimensione del dono reciproco; il disordine cerca di mescolare le carte in tavola per rivendicare un senso di conquista dove l’appartenenza all’altro, all’altra, si vincola, non alla libertà del dono, ma al doppio legame del ricatto affettivo. Di qui il fallimento reattivo di molti matrimoni e di molti cammini, il naufragio di vite che per ritrovarsi sono chiamate a percorrere vie di guarigione dolorose e quanto mai necessarie. Per questo possiamo dire che è difficile vivere la castità (in ogni sua forma), ma è possibile ed è protezione allo sviluppo completo dell’affettività. La grazia ci reimmette, proprio per sua natura, essendo gratuita, nella dinamica del dono.
Con i figli la testimonianza è più importante della parola. Come diceva don Oreste Benzi, se uno vuol essere buon padre deve innanzitutto essere buon marito, se una vuole essere buona madre deve innanzitutto essere buona moglie; e questo nella gioia: imparare a vivere la reciprocità nella gioia, giorno dopo giorno.
Come si può notare nel percorso che stiamo svolgendo, abbiamo fatto riferimento ad una concezione antropologica che rifiuta il dualismo anima corpo per risolverlo nell’armonia trinaria dettata da anima, psiche e corpo. Tale armonia è costitutiva dell’uomo e riflette, anche nella materia, quella somiglianza primigenia in noi impressa da Dio sin da sempre. Quello che potremmo definire «algoritmo psichico» permette infatti all’anima di dialogare con il corpo. E diviene necessario perché lo psichico è capace di raccogliere e integrare i messaggi che giungono dall’anima e i segnali che giungono dal corpo per farli dialogare tra loro e dare loro un significato, per rispondere agli interrogativi che pongono, talora inesorabili.
Nietschze, in una delle sue poesie, parla della «große Hoffnung», la speranza grande, la grande speranza. Benedetto XVI, nella sua finezza intellettuale, riprende il concetto e, nella lettera enciclica Spe salvi, parla anch’egli della grande speranza, che è Dio stesso. E, riferito all’uomo, alla persona, questo significa la pienezza dell’essere umano, per l’appunto nella sua triplice composizione: anima, psiche, corpo. Tutte e tre le componenti sono chiamate a soddisfare e colmare una pienezza costitutiva.
Antropologia trinaria e pienezza dell’umano
Solo ammettendo e costatando tale triplice composizione si può avere pienezza. Quindi, non solo anima. In questo caso cadremmo nello spiritualismo gnostico (cui accennavamo all’inizio), aspramente condannato da Papa Francesco in due documenti pubblicati negli ultimi anni, la Placuit Deo e la Gaudete et exsultate. Ma neppure solo psiche; gli psicologismi sono duri a morire e portano a una scotomizzazione del concetto di persona riducendo gli orizzonti umani a mere soddisfazioni da consumare. E neppure solo corpo: la corporeità slegata da tutto il resto comporta la conseguenza di un tentativo di rivincita del corpo ogni volta che lo spirito si innalza. A ogni innalzamento dello spirito si ha così una caduta della carne, mai da confondere con la sensibilità, anche fisica, dei veri mistici.
Se vogliamo, è un cammino aristotelico-tomista. La materialità delle cose e dell’altro, dell’altra, bussa alla conoscenza del soggetto persona attraverso i sensi, i quali informano l’intelligenza psichica, che, a sua volta, rielabora e fornisce all’anima la possibilità di riconoscere l’essenza del reale nella verità, adeguandosi all’oggetto. Ma conoscere è un verbo delicato. La sua valenza ha percorso la storia sin dai primordi, e sappiamo che significa anche amare, e quindi adeguarsi all’altro, all’altra, all’Altro per eccellenza, Dio, che si fa dono chiedendo un amore di corrispondenza.
La chiamata alla pienezza in Dio è la vocazione dell’uomo. È il compito dell’uomo. Concetto oggi negato, perché se la vita è un compito… è pesante e quasi inutile. Ma invece, proprio perché la vita è un compito assume un senso gratificante. Questo, oggi, va insegnato ai giovani in perenne ricerca di un perché soddisfacente. Il compito è la partecipazione al disegno d’amore di Dio, che soddisfa pienamente ogni grado di aspettativa. Perché? E non è un «perché» retorico. Perché richiede la capacità di amare e di essere amati, capacità di essere amati e di amare nell’anima, nella psiche e nel corpo. Ogni genere di arte, l’abbiamo già detto, è un tentativo di realizzare questo.
È questa, infine, l’affettività che tutti, uomini e donne, celibi e sposati siamo chiamati a vivere (nessuno escluso) secondo una declinazione dell’amore, una qualità dell’amore, che è l’amore sponsale – senza scandalizzare nessuno, ma questo e solo questo, se si vuole per analogia, è amore vero che si traduce in fatti fisici, concreti, in spirito, anima e corpo. Nessuna delle tre parti esclusa.
In questo cammino, apparentemente lineare ma in realtà ricco di insidie, di curve e di controcurve, avvertiamo la tentazione dello spiritualismo; perché sembra la via più semplice. Ma come nella fiaba di Cappuccetto rosso, è una finta scorciatoia e porta alla morte. Gesù è molto gestuale e ci insegna la materialità dello spirito: tocca la lebbra, che era maledizione, e, non contento, Lui stesso si rende «maledetto» lasciandosi appendere al legno della Croce. Avvicina il malato senza remore, tocca gli occhi del cieco con la sua saliva; abbraccia i bambini. I bambini, lo sappiamo, rifiutano gli abbracci impuri, e accettano, quindi, quello di Gesù.
L’uomo, la donna, non devono avere paura dei gesti dell’amore. Il timore potrà nascere soltanto se l’amore sarà vinto dalla necessità o dal possedere. Allora a vincere sarà un pudore che stride con l’amore, a vincere sarà la paura, infine il rifiuto. Perché solo il vero amore può vincere il vero pudore.
Così mariti e mogli non devono avere paura dei gesti dell’amore. Tabernacolo del marito è la moglie e tabernacolo della moglie è il marito. Nel corpo della moglie il marito trova Cristo e nel corpo del marito la moglie trova Cristo, nella fedeltà.
E anima, psiche e corpo si accompagneranno senza pestarsi i piedi a vicenda. Grazie a questa concezione si spiegano e sprigionano nuove luci. Infatti, dall’affetto tra mamma e papà e dalla manifestazione di questo affetto potrà nel tempo nascere ogni genere di vocazione perché i figli si sentiranno gestualmente coperti dall’amore per sempre dei loro genitori, che lascia il testimone all’amore per sempre di Dio. Sicuri, sapranno allora fedelmente percorrere il cammino per loro tracciato, sopportando audacemente spine e ostacoli.
Ciò vale per tutti: celibi e sposati, e per ogni genere di vocazione. Se asettico, l’amore del celibe non attirerà nessuno alla sua medesima vocazione. Ogni donna è chiamata e ogni uomo è chiamato a vivere i gesti dell’amore, ciascuno secondo il suo stato. Nel disegno di Dio il corpo è il centro dell’Universo, luogo tremendo dell’inabitazione della Santissima Trinità presso un’entità altra, un’entità creata, che è una persona. Il corpo, testimone della creazione e quindi dell’amore di Dio, come scrisse un giorno san Giovanni Paolo II: «Questo è il corpo: testimone della creazione come di un dono fondamentale, quindi testimone dell’Amore come sorgente, da cui è nato questo stesso donare».
Massimo Bettetini
Fonte: Studi Cattolici, 717, novembre 2020, 740-745